Apologia dell'Erasmus


Vorrei rispondere a un articolo pubblicato sul blog de "Il Fatto Quotidiano" in data 27 giugno 2018, scritto da Diego Fusaro. Oggetto dell'articolo era l'Erasmus, visto come uno strumento al servizio del capitalismo globalizzato per illudere i giovani precari europei di un futuro radioso e senza confini, assopendo ogni senso di identità culturale e di appartenenza, e al contempo sedando quel senso di incertezza e precarietà con la promessa di divertimento e mobilità “cool” o “fashion” che nutre il narcisismo di ognuno di noi. Per Fusaro l’Erasmus sarebbe paragonabile a un “Panem et circenses” dell'età contemporanea, una distrazione e allo stesso tempo una forma di indottrinamento ideologico usato dei potenti della globalizzazione per addomesticare le masse al proprio volere di mobilità e flessibilità, delle merci così come delle persone “mercificate”.

Ora, senza entrare nel merito dei problemi del capitalismo e della globalizzazione economica, che, gestita secondo la volontà del Dio denaro, ha ingigantito le disuguaglianze creando un sistema consumistico non etico e non sostenibile dal punto di vista ambientale, vorrei concentrarmi sull'argomentazione ideologica e culturale alla base dell'articolo, critico nei confronti del ‘nomadismo” e della “cittadinanza globale”.

Fusaro argomenta sostenendo che la generazione Erasmus è quella dell’ “homo novus”: “...cittadino del mondo (cioè privato di ogni cittadinanza), ovunque a casa (cioè privato di ogni fissa dimora), radicato ugualmente in ogni luogo (cioè privato di ogni radicamento), dotato di open mind (cioè privo di una propria identità culturale e, dunque, “aperto” a tutte quelle che il sistema del consumo vorrà imporgli)”.

Falso. Permettetemi di dissentire. Il “cittadino del mondo” della generazione Erasmus è anzitutto cittadino della propria nazione. È, infatti, solo attraverso la consapevolezza della propria identità culturale che gli è possibile confrontarsi con le altre e acquisire una conoscenza più approfondita e consapevole della propria. Tramite il confronto con un'altra cultura, notiamo aspetti della nostra fino a quel momento passati inosservati o dati per scontato,mentre diventiamo più consapevoli dei limiti e dei pregi della cultura nostra e degli altri.

A tal proposito, vorrei fare un piccolo excursus sulla mia esperienza personale. A 18 anni, il motivo principale per cui ho deciso di studiare lingue all’università è stata la volontà di andarmene dall'Italia. Di lasciare un paese che non mi dimostrava altro che la propria corruzione e il  proprio modo di fare le cose “alla buona”, perché “massì, tanto…” era il motto di chiunque lavorasse giusto perché doveva, con l'obiettivo di guadagnare il più possibile facendo il minimo indispensabile. Questa era per me l'Italia, un paese dal patrimonio culturale inestimabile la cui grandezza era stata rovinata dal suo stesso popolo. Per me nei confronti dell'Italia e degli italiani c'erano solo sentimenti negativi.

Ebbene, se non avessi fatto lingue non avrei forse voluto fare l'Erasmus - per mettere in pratica e migliorare quelle lingue da me studiate - e ora la mia considerazione dell'Italia sarebbe probabilmente la stessa. Oggi, invece, l'amore per il mio paese e la mia cultura è tale che ho deciso di farne il mio mestiere, il mio sogno: insegnare italiano all'estero per ‘esportare” un po’ di buona cultura italiana, al di là degli stereotipi.

È all'estero che ho riscoperto la mia identità nazionale e culturale. È nel momento in cui mi sono allontanata dalla mia casa che l'ho riconosciuta. Ed è lì, all'estero, circondata da persone che come me erano animate dalla volontà di scoprire cosa ci fosse oltre i propri confini, che ho iniziato a sentire un senso di appartenenza alla mia terra, alla sua gente e ai suoi usi e costumi.

Quindi no, non siamo “senza cittadinanza”, “sradicati” o “senza dimora”, né tantomeno “privi di identità culturale”. Semmai è il contrario: la nostra cittadinanza è più ampia, la nostra dimora è la casa a cui torniamo, la nostra identità culturale è più consapevole, e le nostre radici sono più solide e profonde, tanto da permettere ai nostri rami di espandersi al di là della recinzione del nostro giardino.

Ci sentiamo europei, ci sentiamo forse cittadini del mondo, ma prima di tutto riconosciamo da dove veniamo. E la nostra conquista più grande sta proprio nel fatto che questa consapevolezza, anziché chiuderci e dividerci, ci apre agli altri e ci unisce nella ricerca dell’apprendimento continuo e reciproco, per cui confrontandoci impariamo e insegniamo, con la speranza che un giorno la cooperazione sconfigga la competizione.

Per quanto riguarda le critiche in merito alla movida e al divertimento, Fusaro sembra dimenticare la natura originariamente accademica dell'Erasmus, che oggi si espande anche alla mobilità per formazione professionale - sia degli studenti che degli insegnanti - e al volontariato. Certo, l'Erasmus è quel periodo in cui molti, anziché studiare all'estero, fanno festa all'estero. Ma la ricerca del divertimento effimero non nasce certo dalla possibilità di andare a ballare in Francia, Spagna o Finlandia anziché a casa propria. È una conseguenza di un bisogno, una tendenza, che i giovani universitari hanno a prescindere, motivata dall'età e dalla volontà di scappare dallo stress e dai doveri della vita ormai adulta. Decidete voi se è giusto o sbagliato e in che misura, ma non venite a dire che è qualcosa che nasce dall’Erasmus, perché non è vero.

In Erasmus ci si mette a confronto con un sistema accademico diverso, con un diverso modo di insegnare e studiare. Le capacità che si sviluppano studiando all'estero vanno ben oltre il perfezionamento linguistico. Si tratta di indipendenza, capacità di ricerca, adattamento, e soprattutto apprendimento di un nuovo modo di confrontarsi con l'educazione e la conoscenza. Non esiste un solo modo di insegnare e di imparare, e l'Erasmus lo fa capire chiaro e tondo a studenti e insegnanti allo stesso modo. Ancora una volta, si tratta di un confronto che arricchisce e fortifica, anziché spaesare.

Viviamo in un mondo non privo di problemi e la globalizzazione e il capitalismo hanno certamente creato danni agli individui e alle società. Se vogliamo cercare del marcio in qualcosa, possiamo stare certi che lo troveremo. Il marcio e le imperfezioni sono ovunque. Ma forse dovremmo prima cercarlo, accusarlo e condannarlo in quei contesti e in quegli ambienti in cui viene veramente arrecato un danno alla vita dei singoli, delle comunità, delle società e infine del pianeta; anziché infangare un progetto dagli obiettivi nobili e capace di avere un impatto positivo sui cittadini.

Lungi dal dire che l'Erasmus sia un programma perfetto e miracoloso, con queste considerazioni voglio andare contro una critica fortemente ideologica che fraintende, a mio avviso, gran parte di quello che l'Erasmus significa per studenti, docenti e università. Ma anche per tutti gli attori coinvolti nella mobilità per lavoro e volontariato.

Gli strumenti che abbiamo a disposizione ci permettono di raggiungere determinati obiettivi, ma sta a chi li usa la riuscita e la qualità di questi. Per l'Erasmus è valido esattamente lo stesso principio: se si studia o si fa festa, se si impara o si vaga a  zonzo senza uno scopo, dipende in grande misura dal singolo individuo.

L'Erasmus è certamente un programma politico oltre che accademico, ma si tratta di un’iniziativa politica con del potenziale incredibilmente positivo, che, purtroppo, oggi ha ancora il limite di poter essere compreso solo da chi l'ha vissuto in prima persona.

Il dottor Fusaro penserà, probabilmente, che tutte queste parole non sono altro che la dimostrazione di quanto ha sostenuto nel suo articolo: il prodotto di un indottrinamento ideologico. È libero di pensarla come vuole e sicuramente ha le conoscenze sufficienti per interpretare questa realtà secondo quella che è la sua di ideologia.

Mi si lasci però dire che, ideologia o no, io grazie all’Erasmus mi ritengo una persona più ricca. E non sono sola.

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