Da dove vieni?


Per un esame all’università mi è capitato di leggere il saggio “Interkultur” di Mark Terkessidis, giornalista, scrittore e ricercatore di studi migratori. Nato e cresciuto in Germania, ha in realtà origini greche, dato di fondamentale importanza, quando si considerano i suoi scritti.

Mark Terkessidis
Nel capitolo intitolato “Razzismo”, infatti, l’autore fa riferimento ad un episodio ricorrente della sua vita che, specialmente nel corso della gioventù, è stato fonte di forte disorientamento. Spesso gli capitò di sentirsi chiedere: “tu da dove vieni?” - “Dalla Germania!” avrebbe risposto lui, che in Grecia non ci era ancora mai stato. Partendo da questo esempio di vita quotidiana, Terkessidis propone una riflessione su come certe domande, apparentemente innocue, nascondano un sotteso razzismo. L’autore sostiene che i migranti di seconda o successiva generazione – ossia quelli nati nel paese di accoglienza dei genitori o dei nonni (e via dicendo) – non si sentano stranieri finché non glielo si fa notare. Ecco dunque che la domanda “da dove vieni?” trasmette automaticamente il messaggio: “sei diverso da me” o “Tu non appartieni a questo posto”. Beh, un’ affermazione abbastanza forte per qualcuno che in quel posto ci è nato, no?

A questo punto, Terkessidis elenca una serie di domande ingenue che possono alimentare il sentimento di estraneità, mancanza o difetto, che si trovano in forte contrasto col senso di identità e appartenenza sviluppato da questi individui. Ad esempio, la domanda “quanto ti fermi qui?” o, ancora più significativa, “sei mai stato nel tuo paese?”. Quest’ultima domanda mostra tutta la contraddizione propria dell’esistenza di un individuo di doppia nazionalità: perché dovrebbe essere quello dei suoi genitori il suo paese, e non quello in cui è nato, in cui vive, di cui parla perfettamente la lingua e i cui usi e costumi conosce e rispetta?

Per Terkessidis certe domande, per quanto ingenue, andrebbero semplicemente evitate, perché non è necessario porle. Nel mondo globalizzato, dove la mobilità sta diventando la regola e la stabilità sempre più un’eccezione; dove il modo di abitare le città e i paesi è radicalmente cambiato, l’autore sostiene che dovremmo prendere la molteplicità come punto di partenza, come regola, anziché eccezione.

Interrogandomi sulla tesi di Terkessidis mi è sorta, però, una domanda spontanea: se considero la molteplicità come norma, non dovrei forse riconoscerla? Chiedere a qualcuno da dove viene non è un modo di valorizzare la sua identità? In effetti no, se in quel paese che riteniamo il “suo” non ci è mai stato.

Nonostante abbia vissuto (per periodi limitati) la condizione di “straniera”, non posso immaginare cosa voglia dire trovarsi in una situazione simile. Far parte di due mondi allo stesso tempo, senza davvero percepire un’appartenenza assoluta a uno di questi. E’ quello che negli studi culturali viene definito come terzo spazio: uno spazio privo di fisicità, intimo, forse invivibile.

Di solito mi piace chiedere a persone con radici diverse dalle mie qualcosa di più su di loro, la loro famiglia, le loro credenze, gli usi dei “loro” paesi. Penso continuerò a farlo con l’intenzione di valorizzare e non sminuire l’identità di ognuno. Forse inizierò a chiedere loro del terzo spazio, di cosa ne pensano. Una risposta al dilemma se certe domande siano valorizzanti o minatorie non l’ho ancora trovata… spero che i miei incontri futuri possano essere d’illuminazione.





Kiky 

Commenti

  1. Dalla mia esperienza una soluzione sarebbe quella di chiedere "di dove sei di origine?" o "vai mai nel tuo paese di origine"? piuttosto che vai mai nel "tuo" paese. Il problema non è sottolineare la mia origine straniera, che appunto è invece una ricchezza, ma il come lo si fa. Se mi chiedi se vado mai al mio paese sottintendi che questo non lo è. Se mi chiedi se vado mai al mio paese di origine rilevi semplicemente un dato di fatto, ovvero che ho origine da un altro paese.

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